«La direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, deve essere interpretata nel senso che osta a una normativa nazionale che non consente al giudice investito dell’esecuzione di un’ingiunzione di pagamento di valutare d’ufficio il carattere abusivo di una clausola inserita in un contratto stipulato tra un professionista e un consumatore, ove l’autorità investita della domanda d’ingiunzione di pagamento non sia competente a procedere a una simile valutazione».

Detto in altri termini: il giudice deve potere rilevare la presenza di una eventuale clausola abusiva ai danni del consumatore anche in fase esecutiva, non ostando a ciò neppure l’autorità di cosa giudicata del titolo esecutivo.

È questo il principio affermato dalla Prima Sezione della Corte di Giustizia Ue, con sentenza del 18 febbraio, causa C-49/14, resa all’esito di un rinvio pregiudiziale circa la conformità dell’ordinamento processuale spagnolo, e in particolare del procedimento d’ingiunzione, ai contenuti della Direttiva 93/13/CEE del 5 aprile 1993 concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, ossia le clausole che prevedono condizioni contrattuali vantaggiose per il professionista che le predispone e sfavorevoli per il consumatore che le subisce. Obiettivo della direttiva era quello di predisporre a favore del consumatore-contraente debole, effettivi strumenti di tutela per riequilibrare la fisiologica asimmetria del rapporto contrattuale con il professionista: una tutela, dunque, non solo formale ma anche, e soprattutto, sostanziale.

Il nostro ordinamento ha dato esecuzione alla direttiva in esame dapprima con l’introduzione, nel titolo II (Dei contratti in generale) del libro IV (Delle obbligazioni) del codice civile, ad opera dell’art. 25 della legge 6 febbraio 1996, n. 52, del capo XIV-bis, intitolato “Dei contratti del consumatore”; successivamente, con l’adozione del D.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, meglio noto come “Codice del consumo”, che ha predisposto una specifica disciplina dei contratti conclusi fra un imprenditore (definito “professionista“) e un consumatore.

Si tratta, in buona sostanza, di quei contratti in cui il rapporto sorge tra una “parte debole”, il privato cittadino che intrattiene un rapporto che non riguarda la sua attività professionale, e il “professionista”, che in questo contesto prende le vesti di qualunque persona, fisica o giuridica, che conclude il contratto nell’esercizio della propria attività imprenditoriale o professionale, ed è pertanto considerato “la parte forte” (per il mutuo, la banca o l’istituto di finanziamento riconosciuto).

Delle clausole potenzialmente vessatorie è fornita una lista “non tassativa” nell’articolo 33, comma 2, che ne presume vessatorie, fino a prova contraria, molteplici tipologie. Tra le diverse ipotesi enucleate dalla norma rilevano, in particolare, le clausole volte ad escludere o limitare la responsabilità del professionista in caso di danno (o morte) alla persona del consumatore dovuta ad un’azione o omissione dello stesso; le azioni o i diritti del consumatore nei confronti del professionista in caso di inadempimento (totale o parziale) o di adempimento inesatto; l’opportunità da parte del consumatore della compensazione di un debito nei confronti del professionista con un credito vantato nei confronti di quest’ultimo. Rilevano, altresì, le clausole volte a prevedere un impegno da parte del consumatore subordinando, viceversa, l’esecuzione della prestazione del professionista ad una condizione dipendente unicamente dalla sua volontà; riconoscere solo al professionista la facoltà di recedere dal contratto e consentirgli di trattenere una somma di denaro versata dal consumatore in caso di recesso o mancata conclusione del contratto da parte di quest’ultimo (senza prevedere il diritto del consumatore di esigere dal professionista il doppio della somma, laddove sia quest’ultimo a non concludere il contratto o a recedere); consentire al professionista di recedere da contratti a tempo indeterminato senza un ragionevole preavviso, tranne nel caso di giusta causa (ecc.).

Se le clausole previste al comma 2 dell’articolo 33 rappresentano esempi utili ad orientare il giudice e gli operatori del diritto, nulla vieta loro di poter qualificare vessatorie anche tutte quelle ulteriori clausole che, pur non contenute nell’elenco, alterano significativamente l’equilibrio contrattuale. In tal senso si legga il comma 1 dell’articolo 33 che, definendo vessatorie «le clausole che, malgrado la buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto», collega la loro abusività non più al dato formale della mancata specifica loro sottoscrizione da parte dell’aderente, bensì al “significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto”. Una valutazione da fare caso per caso, tenendo conto dell’intero contenuto del contratto e, dunque, della previsione o meno di qualche contrappeso che possa escludere lo squilibrio.

È chiaro, dunque, che la tutela del consumatore predisposta dal Codice del Consumo ha carattere eminentemente sostanziale in quanto permette al giudice, diversamente dal passato, di procedere ad una valutazione più approfondita e pregante, potendo egli sindacare il contenuto di ogni singolo contratto alla luce non solo di clausole che, rientrando nell’elenco di cui al comma 2 dell’art. 33, sono formalmente qualificate vessatorie, ma anche di quelle che, non presentando alcun contrappeso nel regolamento contrattuale, ne alterano oggettivamente e sostanzialmente l’equilibrio sinallagmatico a danno del consumatore. Sempre in tema di clausole abusive, inoltre, la legge, anche in omaggio al principio di conservazione degli atti, prevede che il giudice commini, su richiesta del consumatore, la nullità delle clausole abusive mantenendo, per la restante parte, il contratto valido ed efficace.

Quello delle clausole abusive nei contratti conclusi fra professionisti e consumatori e della tutela effettiva da assicurare a questi ultimi, è un argomento su cui la Corte europea ha sempre mostrato particolare sensibilità e attenzione. Lo dimostra una sua precedente pronuncia con cui ha stabilito che «nell’ambito di un procedimento d’ingiunzione di pagamento, laddove il consumatore non abbia proposto opposizione, il Giudice, ove disponga degli elementi di diritto e di fatto necessari a tal fine, deve esaminare anche d’ufficio la natura abusiva di una clausola inserita in un contratto stipulato tra un professionista e un consumatore» (sentenza Banco Español de Crédito, C 618/10, EU:C:2012:349).

È chiaro, dunque, che con la pronuncia del 18 febbraio 2016, causa C-49/14 la Prima sezione della Corte di Giustizia, riconoscendo al giudice il potere di esercitare d’ufficio un controllo in ogni fase, ha aggiunto un altro importante tassello alla tutela del consumatore vessato. Pur ricordando che le modalità di attuazione del principio dell’autorità di cosa giudicata rientrino nella competenza dell’ordinamento giuridico interno degli Stati membri in virtù del principio dell’autonomia procedurale di questi ultimi, i giudici europei hanno tuttavia precisato che tali modalità devono soddisfare la doppia condizione di non essere meno favorevoli di quelle che disciplinano situazioni analoghe soggette al diritto nazionale (principio di equivalenza) e di non rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti attribuiti ai consumatori dal diritto dell’Unione (principio di effettività).

Nella fattispecie, occorre osservare che lo svolgimento e le peculiarità del nostro procedimento d’ingiunzione di pagamento sono tali che tale procedimento è chiuso senza possibilità che venga eseguito a posteriori un controllo dell’esistenza di clausole abusive in un contratto stipulato tra un professionista e un consumatore. Un simile regime processuale rischia di vanificare, o comunque, compromettere l’effettività di tutela del consumatore voluta dalla direttiva 93/13. Il nostro sistema processuale, così come quello di quasi tutti gli Stati europei, è infatti, caratterizzato da preclusioni, ossia da “tempi limite” oltre i quali determinate eccezioni non possono essere sollevate, con l’effetto di sanare l’eventuale vizio.

Ebbene, secondo la Corte di Giustizia, queste regole non possono valere sempre. E non valgono quando è in gioco l’interesse del consumatore nei rapporti con un soggetto forte come la banca che impone i suoi contratti standard senza possibilità per il mutuatario di intervenire sul testo, modificandolo o personalizzandolo alle proprie esigenze. Per questi casi la Corte stabilisce che la presenza di clausole abusive deve poter essere rilevata in qualsiasi fase del procedimento, dall’iniziale istanza di decreto ingiuntivo alla fase ultima della vendita forzata con l’asta, essendo contrarie al diritto dell’Unione Europea eventuali regole interne agli Stati che pongano una preclusione oltre la quale il consumatore non può più contestare la validità del finanziamento, eccependo la nullità del contratto.

Tutto ciò comporta due importanti conseguenze pratiche: in primo luogo, il giudice nazionale deve fare un primo e generale vaglio sulla legittimità del contenuto del contratto verificando già all’atto della richiesta del decreto ingiuntivo, ancorchè la legge non lo prescriva espressamente, la regolarità del contratto e, dunque, l’assenza di clausole abusive e vessatorie (si pensi al caso di interessi anatocistici, interessi superiori a quanto disposto dalla legge, rinuncia a garanzie, ecc.). In secondo luogo, all’atto dell’esecuzione forzata, in sede cioè di pignoramento e vendita forzata, il giudice ogni qual volta riconosca che nel merito il contratto presenti clausole abusive e vessatorie, deve annullare il contratto, e quindi stoppare la vendita all’asta, non potendo invocare regole procedurali che stabiliscano, eventualmente, la sua incompetenza a pronunciarsi su questioni relative al merito del credito.

Alla luce di tali argomentazioni, è interessante capire quali saranno le ripercussioni della sentenza in commento nel nostro ordinamento in cui ogni giorno vengono conclusi centinaia di contratti contraddistinti dalla previsione di clausole abusive a danno dei consumatori. A titolo esemplificativo, basti pensare ai mutui bancari al cui interno sovente sono inserite clausole, quali tassi sopra soglia o penali per estinzione anticipata del contratto, il cui contenuto presenta nella maggior parte dei casi carattere di abusività dal momento che impone al consumatore un regolamento contrattuale sbilanciato a favore della banca, difettando qualsivoglia contrappeso idoneo ad escluderne il carattere vessatorio. Secondo Adusbef (Associazione difesa consumatori ed utenti bancari, finanziari ed assicurativi) e Federconsumatori, sono vessatorie e lesive dei diritti dei consumatori le clausole dei contratti di mutuo stipulati con il rimborso alla francese (ovvero interessi capitalizzati occultamente nel piano di ammortamento), già censurati e sanzionati, dietro ricorso dei legali Adusbef, e da numerose sentenze dei giudici di primo grado, nonché le clausole di numerosi contratti bancari che ancorano all’illegittimo ed illecito parametro Euribor (stabilito dalle stesse banche, spesso con accordi occulti) la misura degli interessi e competenze economiche, nonché le clausole che aggiungono al tasso nominali numerosissimi costi occulti e penali che sommate ai tassi configurano il reato di usura, nei mutui, nei contratti di leasing, conto corrente bancario e simili.

Conclusivamente, non resta che auspicare che i giudici italiani si conformino alla giurisprudenza della Corte di giustizia e ciò non soltanto per non incorrere in violazioni del diritto europeo ma anche, e soprattutto, per tutelare efficacemente le molte centinaia di consumatori indebitati che tutti i giorni subiscono le inique condizioni contrattuali imposte unilateralmente dalle banche.