Con la sentenza in commento la Cassazione è tornata ad occuparsi di responsabilità medica con particolare riguardo alla fonte, alla struttura e alle connesse implicazioni del diritto al consenso informato, fissando il principio secondo cui possono esservi danni risarcibili anche nel caso in cui l’atto medico non assentito non abbia recato danno alla salute del paziente.

Questa conclusione è dettata dal carattere plurioffensivo dell’inadempimento dell’obbligazione di acquisire il consenso informato che è suscettibile di ledere due entità ben distinte: il diritto alla salute e quello all’autodeterminazione terapeutica.

Da queste premesse deriva che l’esito, anche positivo, dell’atto medico sulla salute del paziente e dunque la non configurabilità di una violazione del relativo diritto, non esclude la lesione del diritto all’autodeterminazione, da intendersi come un vero e proprio diritto inviolabile della persona, costituzionalmente tutelato dagli artt. 2, 13 e 32, e la cui violazione è suscettibile di produrre autonomi danni-conseguenza non patrimoniali, ben diversi dalla menomazione dell’integrità psico-fisica della persona e, in quanto tali, autonomamente risarcibili rispetto a quest’ultima.

Il principio su esposto è stato elaborato nella vicenda che interessava un chirurgo che, dopo aver informato e ottenuto il consenso della paziente in merito ad un intervento di “asportazione di cisti ovarica”, sulla base di un referto istologico che aveva indotto una diagnosi di adenocarcinoma, ne aveva eseguito, senza ottenerne un nuovo consenso, uno completamente diverso, e ben più radicale, consistente in “una laparotomia, una isterectomia totale, una anessectomia bilaterale, una appendicectomia ed omentectonia”. Ancorchè l’intervento fosse stato eseguito in modo ineccepibile, determinando la guarigione della paziente, quest’ultima lamentava che tale l’esito terapeutico fausto le avesse, tuttavia, comportato il sacrificio, del tutto inconsapevole (anche se inevitabile da un punto di vista tecnico), di vari organi interni e della sua stessa capacità riproduttiva. Per tali ragioni agiva in giudizio per il risarcimento dei danni patiti.

Non trovando la sua richiesta accoglimento né in primo, nè in secondo grado, sul presupposto che, a parere dei giudici di merito, dovesse escludersi che le denunciate menomazioni, indispensabili ai fini della sua guarigione, potessero rappresentare una “conseguenza dannosa immediata e diretta della condotta inadempiente dei sanitari” (e dovendosi, al contrario, ritenere che l’intervento avesse sortito un miglioramento del suo stato di salute), la stessa invocava l’intervento della Cassazione.

I Supremi giudici, in parziale accoglimento del ricorso, ribadiscono che “la possibilità di scegliere di non sottoporsi all’intervento è una eventualità che è preservata dal diritto al consenso informato”, un diritto consistente “nella facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche di rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla in tutte le fasi della vita, ivi compresa quella terminale”, con la conseguenza che se il paziente viene sottoposto ad un intervento su cui non ha espresso preventivamente il suo consenso, il buon esito non è di per se idoneo e sufficiente ad eliminare i danni conseguenti poiché “il beneficio tratto dall’esecuzione dell’intervento in queste ipotesi non ‘compensa’ la perdita della possibilità di eseguirne uno meno demolitorio e nemmeno uno che, se eseguito da altri, avrebbe provocato meno sofferenza.